La storia del carciofo è ancora oggi controversa, confondendo il carciofo selvatico con quello coltivato. La prima immagine del carciofo è stata trovata in un affresco delle grotte di Ajanta, in India, del 200 a.C. nel quale un monaco ha in mano tre carciofi. Queste piante erano già presenti in forma selvatica all’epoca degli Egizi, ed è certo che sia i Greci, gli Etruschi che i Romani coltivassero un tipo indefinito di cardo. Plinio in Naturalis Historia, scrive del carduus, affermando che era uno degli ortaggi preferiti, risaltandone le proprietà depurative, tonificanti ed afrodisiache. I fiorellini azzurri (in cui è presente la chimosina), servivano a far cagliare il latte. Il Columella nel “De re rustica” parla di cinara hispida, e ne fa risalire l’etimologia del nome “cinara” alla consuetudine di concimare questa pianta con la cenere. Secondo la maggior parte degli autori, questi antichi cardi, o carciofi selvatici, erano molto diversi dagli attuali carciofi, che sarebbero comparsi soltanto nel 1500 attraverso colture speciali e processi di selezione, fino ad arrivare alla specie odierna, conosciuta col nome scientifico di Cynara cardunculs, subsp. scolymus. Lo studioso francese E. di Saint Denis sostiene che il carciofo fu ottenuto da orticoltori italiani nel XV secolo. Nel 1466 infatti da Napoli fu portato a Firenze per opera di Filippo Strozzi. Il carciofo ed il cardo, in araldica simboleggiano la speranza.
Il carciofo, pianta erbacea perenne, dal punto di vista agrario-colturale si può considerare come pianta poliennale della durata dai tre agli otto anni. Raramente annuale, a volte rimane sul terreno per 9-10 anni.
Una prima classificazione divideva la produzione nazionale in carciofi con squame violette e squame verdi. Della prima categoria faceva parte il denominato Carciofo romanesco (Campagnano e Castellamare). Secondo C. Rava il Carciofo di Castellamare, sottotipo del romanesco, iniziò ad essere coltivato nel primo dopoguerra: “… pianta robusta, con sviluppo minore della romanesca; teste di forma rotondeggiante, un po’ allungata, di colore verdastro-violetto, con brattee unite. Questa varietà è coltivata estesamente in Campania, specie a Schito, (ndr. zona considerata già in epoca romana particolarmente adatta all’orticoltura) centro più importante della coltura. Sono tuttavia in coltivazione due sottovarietà della Castellamare, la bianca con squame verde-grigiastro, e la rossa o meglio violetta, con le brattee di color violetto”. Il carciofo di Schito si differenzia ulteriormente dalla varietà romana per l’epoca di produzione anticipata, ciò anche per la mitezza del clima, per l’abitudine di rigenerare le piante ogni anno e per una serie di concause non comuni: il clima, marino e montano, l’abbondanza di acqua, la terra ricca di minerali dovuti ai residui delle eruzioni vesuviane e, non ultima, l’attenzione che i nostri contadini hanno avuto “nell’accudirlo“. Ha forma sub-sferica, senza spine, dal sapore gradevole, ha una particolare carnosità e tenerezza delle brattee. È ricco di ferro, di buon valore nutritivo e basso apporto calorico. La produzione si concentra all’inizio della primavera, la coltura è del tipo tradizionale, le carciofaie durano in produzione fino a 5-6 anni. Ancora oggi la prima infiorescenza apicale (‘a mamma) viene coperta con coppette di terracotta (pignatte o pignattelle) una volta realizzate artigianalmente). La protezione dai raggi del sole, nella fase di accrescimento del carciofo, lo rende particolarmente tenero e chiaro. Negli ultimi trent’anni, causa l’urbanizzazione e la diversa destinazione d’uso (floricoltura) di diverse aree di coltivazione si è avuto un notevole calo delle produzioni, tuttavia il carciofo di Schito resta rinomato per l’eccellente qualità. Per queste sue caratteristiche è molto apprezzato in cucina, ingrediente dalla grande versatilità, viene difatti utilizzato nella preparazione di svariate ricette e piatti locali (ottimo con le patate, come variante al posto delle melanzane per la parmigiana, risotto, pennette, frittelle…). Per arrostirlo sulla brace, deve essere posto direttamente sulla “fornacella”, cotto, viene ripulito delle foglie più esterne abbrustolite (da inserire all’interno, oltre al prezzemolo, l’aglietto fresco, pepe, un filo d’olio, pezzetti di pancetta paesana e la parte tenera del gambo a piccoli tocchetti). Resta uno dei simboli della Pasqua, che generalmente coincide con il periodo centrale della produzione tra marzo e maggio. Ogni anno, la seconda domenica dopo Pasqua, in concomitanza dei festeggiamenti dedicati a Maria Santissima dell’Annunziata, si svolge una sagra, quest’anno, la 39^, si è tenuta dal 12 al 15 settembre in concomitanza del 150 anniversario dell’elevazione a parrocchia.
A cura di Giuseppe Plaitano