Boomers, Generazione X, Millennials, Gen Z: negli ultimi anni questi termini hanno invaso il nostro lessico e sono stati il fulcro di molte conversazioni, specialmente sui social network. Ma il concetto di gap generazionale esiste, in realtà, da molto più tempo. L’espressione fu introdotta negli anni 60 per descrivere la frattura ideologica e culturale tra coloro che erano nati nel dopoguerra e i loro genitori. Definire le linee di demarcazione tra una generazione e la successiva è un’operazione complicata e alquanto forzata: non c’è nessuna base empirica che possa affermare in modo definitivo dove inizia e dove finisce una generazione. Se da una parte differenziare le generazioni può aiutarci a meglio definire le influenze culturali, politiche, sociali ed economiche di una popolazione all’interno di una linea temporale, dall’altra bisogna riconoscere che gli eventi sociali e storici influenzano in modo differente le persone, indipendentemente dalla generazione di appartenenza. Etichettare una determinata fascia demografica e una serie di idee e stereotipi ad essa legati è sbagliato e controproducente. La semplificazione eccessiva che ne deriva provoca un inevitabile appiattimento dell’esperienza di milioni di individui e la scomparsa di nuance importanti.
Una divisione così netta tra generazioni inasprisce il divario tra giovani e meno giovani che si accusano a vicenda di essere la causa di problemi le cui radici affondano nella stessa matrice. Viviamo in una società complessa che detta legge su quelli che sono venuti prima di noi e quelli che verranno dopo. È nella natura umana, nel cercare le cause dei propri problemi, individuare un capro espiatorio che ci sollevi dalle nostre responsabilità. Così ci ritroviamo ad addossare colpe e frustrazioni sulle generazioni che ci hanno preceduto, alimentando un meccanismo ciclico di reciproche accuse. Ma capire che lo scontro generazionale attuale è un espediente per distrarci dall’inequità che colpisce tutti noi non è l’unica ragione per cui dovremmo abbandonare queste tediose distinzioni. Usando una frase del sociologo François Höpflinger, «non c’è vita al di fuori dei rapporti intergenerazionali»: quello che consideriamo un divario, un ostacolo, è in realtà un ponte. Non è la stessa storia dell’umanità che è arrivata fino a noi grazie alle generazioni vissute in precedenza? La consuetudine del tramandare di generazione in generazione ha fatto sì che antiche conoscenze e tradizioni non andassero perdute per sempre. E poi c’è la famiglia, l’esempio più lampante dell’importanza e della bellezza dei rapporti intergenerazionali: nonni, genitori, figli, tre generazioni differenti eppure visceralmente legate tra loro. Quanti di noi hanno cucinato un piatto seguendo la ricetta della nonna o ascoltato una canzone scoperta grazie ai nostri genitori?
La fragilità del concetto di gap generazionale è riscontrabile anche in letteratura: l’esistenza stessa di ciò che noi chiamiamo classici è la prova che essere nati in una generazione distante centinaia di anni dalla nostra non ci rende in realtà diversi da essa. Motivo per cui, leggendo le parole di scrittori vissuti in un contesto storico e sociale totalmente diverso dal nostro, riusciamo a riconoscerci nei loro pensieri ed esperienze.
Forse è in questa affermazione del sociologo Lewis Mumford che possiamo trovare un epilogo alla contraddizione del gap generazionale: «Ogni generazione si rivolta contro i suoi padri e fa amicizia con i propri nonni».
A cura di Chiara M. Castaldo
Volontaria Servizio Civile Anci Campania