Con il termine Greenwashing si indica la tendenza di molte aziende di autoproclamarsi sensibili ai temi ambientali, dichiarando di seguire un processo lavorativo ecosostenibile attraverso degli espedienti solo apparentemente green, ma che mirano a distogliere l’attenzione da altre dinamiche aziendali poco green ed etiche. Per capirci, fare Greenwashing significa anche aderire a trovate di marketing che cercano di nascondere nell’armadio scheletri importanti. Sono infatti molte le aziende che si nascondono dietro i termini di sostenibilità ambientale e processo etico senza però fare niente di concreto per tutelare l’ambiente, utilizzando l’ecosostenibilità come un messaggio promozionale ingannevole volto a ottenerne un beneficio remunerativo e strizzando l’occhio a quella fascia di consumatori scrupolosi. Proprio per quest’ultimo aspetto, purtroppo, il Greenwashing è un fenomeno molto diffuso, soprattutto in un momento come quello attuale in cui l’eco-sostenibilità ha acquisito molto appeal.
L’Italia, purtroppo, partecipa al fenomeno di Greenwashing, anche se in maniera passiva. Nella nostra nazione, come in Europa e negli USA, ci sono tantissime multinazionali, estremamente ricche, che applicano e vivono di fast fashion. Quest’ultima moda si basa sul fatto di vendere capi a bassissimo prezzo e realizzare tantissimi vestiti, più di quanti realmente servono. Questo aspetto causa un utilizzo incredibilmente massiccio di vestiti nuovi, magari utilizzati pochissime volte e gettate via, aumentando di conseguenza anche le collezioni previste da un’azienda. Basandoci sui numeri, ogni anno nel nostro continente sei milioni di tonnellate di abiti finiscono in discarica, gran parte dei quali sono il risultato di un fast fashion che divora tutto. In media, ogni cittadino butta via 11 kg di vestiti, scarpe e altri prodotti in tessuto. Ma dove finiscono questi rifiuti? Ci sono delle discariche in giro per il mondo, nei paesi meno sviluppati, come ad esempio Atacama, situato nella zona costiera nordoccidentale del Cile. Tutto è cambiato grazie, all’intervento dell’uomo, che qui, da qualche anno, sta riversando tonnellate di vestiti e calzature usate, che hanno stravolto il paesaggio e ne stanno compromettendo l’ecosistema, diventando a tutti gli effetti il cimitero della fast-fashion. Dall’America latina si passa verso l’Africa e in particolare in una delle discariche più inquinanti e piene del mondo: il Ghana. Arrivano 15 milioni di abiti usati ogni settimana producendo da una parte un filo di economia per la popolazione locale, dall’altra un’immane catastrofe ambientale. Per un Paese di 32 milioni di abitanti rappresenta un mercato importante perché parliamo di 200 milioni di dollari di abbigliamento che vengono importati ogni settimana. Il Ghana spende circa quattro milioni di dollari all’anno per raccogliere ed eliminare i rifiuti ma non ce la fa a smaltire i vestiti, che si usurano nell’ambiente fino a formare la discarica più grande del mondo.
Il fenomeno del greenwashing riguarda tutto il mondo perché, facendo attenzione, potremmo salvare ecosistemi e tantissime vite, che attualmente sono messe a rischio. Cosa possiamo fare? È importante verificare la veridicità della sostenibilità delle aziende, cercando informazioni all’interno dell’azienda stessa, leggendo attentamente le sue politiche di sostenibilità ambientale e il modo in cui vengono applicate durante tutto il processo lavorativo. Un input che può servire a individuare le aziende che praticano il Greenwashing è osservare la loro comunicazione, ma soprattutto chiederci consapevolmente e interiormente prima di un click realmente mi serve?
I Volontari del Servizio Civile Anci Campania